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mercoledì 2 luglio 2014

Pollice verde, questo sconosciuto

Tutto è cominciato con una pianta delle discrete dimensioni, una marea di fiori piccoli e bellissimi, sembravano di seta, mi dice che non vuole sole pieno, ma un po' d'ombra, penso alle finestre della casa che sono 3, una nel sole pieno tutto il giorno, una che non apriamo mai perchè se anche il vicino apre la sua possiamo senza problemi allungare un braccio e prendere la carta igienica l'uno nella casa dell'altro, e la terza senza un appoggio per un vaso e perennemente nell'ombra (incastrata fra due edifici).
Ma lei è troppo carina e quei fiori non li avevo mai visti, così la compro.
Così per un mese è stato un avvicendarsi di spostamenti da una finestra all'altra: la sera davanti a una, la mattina davanti a un'altra, il pomeriggio chiusa in casa... troppo sole, poco sole, troppa pioggia, non ha l'acqua, troppa acqua, finchè non abbiam cominciato a dimenticare delle migrazioni da un angolo all'altro ed è stato l'inizio della fine, fiori ammosciati come se gli avessero sparato, skypata in Italia per consigli e rimedi, la ripresa e le svariate ricadute... c'era stata l'idea di abbandonarla davanti alla casa di un vicino (che ha un grande giardino), avvolgendola in una coperta, dentro un cesto, con un bigliettino che diceva "yoroshiku onegaishimasu" ( una sorta di "per favore, prenditi cura di me"), ma anche se alla fine abbiamo optato per un semplice trasloco, la poverina non è sopravvissuta.

La seconda è stata una pianta che vendevano da Maruetsu (supermercato vicino a casa) che si chiama Coda di Gatto, trooooppo carina per non averla. La porto a casa e sono entusiasta di tutti quei codini pelosi e rossi che escono dalle foglie come fossero mille gattini che si nascondono. Ora. Il primo temporale della stagione ne ha spatasciato i codini e decimato le foglie, con il risultato che i codini ora sono rosso/grigio scoloriti e le foglie rattrappite. Tuttora resiste e le voglio bene perchè capisco l'impegno che ci sta mettendo a rimanere in vita ma è madonna mia se è veramente bruttina adesso...
Nello stesso periodo compro un mughetto. Un ciuffetto singolo, delizioso coi suoi campanellini bianchi. Coi primi caldi i campanelli si sono bruciati come vampiri esposti ai raggi del sole albeggiante. Anche lei è ancora in vita ma credo che in realtà sia mummificata perchè quelle foglie verde ingiallito sbiadito non me la raccontano giusta.

Il fioraio della prima pianta è lungo la strada per la scuola, ogni giorno ci passo davanti ed è difficilissimo resistere all'acquisto di qualcosa. Un giorno non mi tengo e cedo ancora: bellissima giornata, bellissimo sole, una gerbera rossa geranio e accanto una piccolo cactus tondo piccino con un mega fiore rosso bellissimo. Costano pochissimo. Via! Miei tutti e due. Il cactus starà da dio nel caldo della casa minuscola e la gerbera può affrontare qualche raggio dai.
Torno a casa coi miei due sacchetti.
Arrivata a casa, dentro quella plastica malefica il cactus ha sudato così tanto che i petali del fiore gigante si sono appiccicati fra di loro creando un magma unico, tempo una notte e il fiore me l'ero già giocato...
La gerbera dopo due giorni stava beata sul terrazzo (profondo 20 cm) quando un acquazzone l'ha scompigliata in maniera irreversibile tanto da renderne i fiori una specie di carciofi ornamentali urendi.
Ovviamente il sole del giorno successivo è servito a seccare il tutto e renderne un orribile bouquet di fiori secchi.

Ora.
Mi ero detta mai più.
L'ho detto ogni volta in realtà.
Ma c'era questa piantina che mi fissava da giorni nel negozio che c'è vicino a lavoro.
E' minuscola, una specie di ninfea. Col suo vasetto da tenere affogato nell'acqua. Sempre. Da tenere in casa perchè non vuole luce diretta.
Le ho comprato un secchiellino da spiaggia per affogarla in tutta l'acqua che vuole.
Diciamo che è la mia ultima chance... mi chiedo come potrebbe suicidarsi...
Comunque se non schiatta nel giro di qualche giorno, come minimo sarà la culla perfetta per un proliferarsi di zanzare mai visto!

mercoledì 12 febbraio 2014

La mia magica famiglia giapponese

Senza che me lo aspettassi sono entrata a far parte di una famiglia giapponese, senza padre madre e figli, ma tutti fratelli e più affiatati che mai. È il ristorante a Meguro dove da tre settimane lavoro. È mescolato in mezzo a tante case, visibile solo a chi sa come arrivarci, ma sembra che lo conoscano davvero in tanti.
I ragazzi che ci lavorano sono tutti giapponesi e il più grande ha la mia stessa età.
Venni qui la prima volta lo scorso anno ed incontrai per la prima volta lo chef la scorsa estate, nel peggior giorno degli ultimi anni, quello in cui mi trascinavo per l'ennesima volta a fare 3 colloqui di lavoro, e questo era il secondo locale dove andavo quel giorno. Arrivai al ristorante già sapendo che la mancanza di un visto lavorativo avrebbe solo portato a un altro rifiuto, l'ennesimo; pessima prospettiva, e in più mi sentivo tremendamente sola. Prima di entrare sfoderai il mio miglior sorriso, e poi, mentre uscivo, dopo aver sentito quello che già sapevo, stavo già piangendo. Non tanto per la risposta ma per non riuscire a trovare un modo per inserirmi nella vita in Giappone.
Non andai al terzo colloquio, ricordo ancora il punto esatto dove mi fermai a piangere quel giorno.
Ma ora quell'episodio mi sembra lontano anni luce, forse perché mi sento più sicura, forse perché le giornate qui a Tokyo si sono riempite di impegni, o forse perché ho scoperto che dietro quello che io provavo quel giorno, c'era tutto un mondo che non conoscevo: un gruppo di persone davvero intenso e puro.
Del breve colloquio dell'estate scorsa, con lo chef, ricordo tanta gentilezza, e anche una certa distanza, ma ero troppo fragile e preoccupata a non mostrare la mia debolezza, per vedere altro, per accorgermi di cosa avevo davanti a me.
Ero arrivata ancora una volta allo sbaraglio in un locale dove non ero mai stata, trovandomi di fronte facce sconosciute che percepivo solo come educate/indifferenti alla mia venuta, senza ovviamente sapere cosa si nascondesse dietro quei saluti tanto gentili quanto automatici.

Quando questa volta tornai a parlare con lo chef le mie paure si erano allentate e quello di magico che c'è in questo locale mi è arrivato immediatamente.
È bastato parlare ancora con lui per capire che quella che la scorsa estate percepivo come educata distanza, era solo un modo gentile e attento di esprimersi. E che l'apertura nei miei confronti, e forse nei confronti delle persone in generale, in realtà era grandissima.
Il ristorante ha un'atmosfera intima e allo stesso tempo amica, vengono coppie, ma anche piccoli gruppi di persone d'affari, famiglie, e tanta gente interessata all'Italia.
Il ristorante non è piccolissimo, ma ben distribuito ed essere in 5 in sala vuol dire poter seguire bene tutti i clienti e farli sentire curati.

A volte è davvero un piacere servire un tavolo ed era una cosa che nella mia vita non mi era mai successa.
Per la prima volta amo lavorare in un ristorante, e per la prima volta ho messo in discussione il "lavorare in un locale non è quello che voglio fare". La sera quando finisco di lavorare vorrei non andare a casa, perché questo posto mi fa sentire bene, nella città giusta, con le persone giuste, con i giusti sentimenti. Quando verso le 23e30 esco (mentre gli altri finiscono la serata) mi sento come se uscissi da un incantesimo e non vedo l'ora che arrivi il giorno dopo.

Chi come me viene da un trascorso di passione per manga, anime e drama poi, potrebbe subito ritrovare nello staff del ristorante tutti i personaggi più splendidi di una qualsiasi storia giapponese.
L'umorismo, la gentilezza, la purezza, la delicatezza, il rispetto e persino le facce comiche, c'è tutto.
In sala con me, oltre al direttore, ci sono 3 ragazzi. 
Il più giovane si dà da fare per quattro, incredibilmente diligente e attento da un lato, è totalmente inesperto e impacciato nelle relazioni personali; ha sempre un enorme rispetto per tutti, persino per me, l'ultima arrivata, la meno importante. A volte gli vengono dedicate piccole e innocenti battute per la sua inesperienza con le donne, ma non l'ho mai visto prendersela, anzi, spesso fra le risate di tutti, e mio grande stupore, conferma e annuisce! 
Quando gli chiedo della ragazza con cui é uscito già tre volte, mi risponde imbarazzato, ed è così diverso il suo comportamento da quello di un italiano, che non può che scatenare una simpatica tenerezza! Tutti gli altri si prodigano in consigli, e io trovo che sia adorabile vedere ragazzi più grandi curarsi di lui invece che riderne.
C'è poi il ragazzo elegante, che potrebbe benissimo essere uscito da uno shojo manga: lo spilungone magro e dall'apparenza misteriosa, col capello un po' lungo, che arriva vestito di nero, a volte mi guarda e, sapendo di recitare, fa pose alla 007, scomponendosi poi in facce comiche e interdette che sono meravigliose! A volte mentre facciamo piccole riunioni in giapponese (a me incomprensibili), con un movimento lento della testa ci guardiamo serissimi, come a dirci "che paura!" e poi scoppiamo a ridere.
Nello staff non poteva mancare un musicista, e lui è uno spasso, un comico nato, un attore mancato, che non perde occasione per imitare tutti, e farmi gag che tante volte non capisco ma che fanno ridere già solo per vedere lui che fra saltelli e coreografie, si sbraccia e mima personaggi televisivi che non conosco. È quello con cui provo a parlare di musica e di locali, poi lui il più delle volte parte in discorsi di cui posso solo provare ad immaginare il significato... (non si contano le volte che ho immaginato il significato delle frasi dove riconoscevo solo una parola! Alcune volte ho fantasticato talmente tanto, da rimanerci male quando scoprivo il vero significato!) Credo che certe volte a guardarci da fuori siamo piuttosto comici: io col mio scarsissimo giapponese, lui col suo ancora più scarso italiano, che facciamo discorsi lunghissimi, intervallati da azioni mimate e versi esplicativi...

E poi in sala c'è il direttore, che insieme allo chef è quello che meglio sa parlare l'italiano. È uno spettacolo di persona, ha il sorriso stampato in faccia e mi ha sempre spiegato con gentilezza cosa dovessi fare, senza usare mai la parola "sbagliato", che sembra che qui non esista.
Mi manda allo sbaraglio ai tavoli cercando di spiegarmi come dire al meglio le frasi essenziali, e ora ho le tasche piene di bigliettini e promemoria.
A volte, quando il lavoro si calma, mi viene vicino e mi chiede se conosco questo o quello, dice cose divertenti, accompagna le spiegazioni che mi dà con versi e facce buffe, e nelle cose un po' sceme che faccio mi appoggia sempre. 
Veste un grembiule bianco con la scritta in rosso "ti amo!" :D

Quando arrivo in anticipo per studiare un po', ognuno di loro è disponibile ad ascoltarmi mentre prepara il proprio lavoro, rispondere alle mie domande sceme da scuola elementare e spiegarmi la pronuncia delle parole. 
E ridono tantissimo quando cerco di spiegare loro certe parole improbabili italiane tipo "patatone e topolone".

In cucina lavorano in quattro, lo spazio è ridotto ma loro sono bravissimi a coordinarsi, un'amico comune ha detto che fanno miracoli in quella cucina per quanto è piccola. Io non so se è vero ma so che ogni piatto che esce è davvero buono e preparato con attenzione.
Il ragazzo che si occupa degli antipasti e dei dolci sa fare una torta alle fragole che è una bomba. È il più riservato del gruppo, schivo ma gentile. Sempre silenzioso, ma ogni volta che deve fare uscire un piatto urla un "per favore!!" da trapassare i timpani, e lo grida anche se sei lì davanti che aspetti, pronto a servire.
Quando sono venute due sue amiche a mangiare è stato molto premuroso nei loro confronti e si vedeva che era felicione anche se sempre in serissimo silenzio. Lui maji majime desu. Lui è molto serio.
Il ragazzo che si occupa dei primi è il belloccio del gruppo; quando ancora siamo a ristorante chiuso ha un aspetto comune, poi prima di aprire si mette un gel, una cera, qualcosa, tirandosi indietro i capelli che prima coprivano il viso, e si trasforma nel bellone che con lo sguardo fa secche tutte le donne.
Ha un viso strano, insolito per un giovane giapponese, un po' spigoloso e con gli occhi grandi, e quest'incredibile voce da vecchio attore di teatro (alla Gassman nelle parodie più conosciute), che cozza in modo assurdo con la sua figura esile e sofisticata. 
E questa cosa è il motivo per cui tutti gli fanno il verso durante il lavoro! Ogni volta che lui chiama un piatto, o risponde a qualcuno con questa voce da caverna, si leva un eco di imitazioni tali che a volte, se sono di spalle, non so se sia lui davvero o qualcuno degli altri che lo imita.
Sono arrivata al punto che viene anche a me di dire "hai" con la sua intonazione!
È sposato e gli dico sempre che lo tengo d'occhio, perché si vede che fa strage di cuori con questa bellezza strana, e qualcuno deve salvaguardare la moglie! Ed ora è diventata prassi far battute a lui ogni volta che si parla di donne :D
Una volta entrando in ufficio lo trovai seduto alla scrivania mentre consultava internet, il caso volle che stesse scorrendo una pagina  passando attraverso immagini di belle donne. È stata una scena comica! Lui mi ha visto e si è prodigato in gesti imbarazzati per spiegarmi che era solo un caso, e io, pur sapendolo, non ho potuto resistere a prenderlo in giro!

Il ragazzo che si occupa dei piatti da lavare fa anche preparazione del pesce, della pasta, delle verdure... E tante volte vorrei poterlo aiutare perché credo che sia quello più affaticato e oberato di cose da fare. 
A volte ne ha talmente tante da fare da non riuscire a mettersi in pari con le stoviglie da pulire. Ma come ogni giapponese è stoico nel suo lavoro e non si piega con niente!

E poi c'è lo chef, che quando mi parla m'incanta per i suoi modi gentili; l'ho scoperto interessato a tutti i ragazzi che lavorano con lui, e li tratta tutti con cura, anche quando spiega loro cose riguardo la cucina non lo fa mai con autorità, ma sempre con dedizione. 
Qualche giorno fa l'ho guardato impastare la pastafrolla, usava una cura e un'attenzione tale che sembrava essere l'ultima pastafrolla della sua vita. Mai visto nessuno amare così tanto la preparazione della cucina. Guardarlo cucinare mi ha fatto per la prima volta vergognare di essere così impedita ai fornelli.
E' assolutamente serio sul lavoro, ma mi piace tantissimo quando lo faccio ridere con qualcuna delle mie stupidaggini, quando riesco a sfondare il muro della giapponesità! 

Poi vabbhè, con uno sguardo mi manda a stendere e ciao.
Mamma mia che fatica!!!!  Questo Giappone pieno di prove da jedy. :)


Questa è la famiglia che ho trovato. E che in questi giorni in cui ho avuto la febbre mi è mancata più di ogni cosa.
Chi l'avrebbe mai detto che per una volta aver la febbre e non andare a lavorare mi sarebbe pesato??
Domani tornerò operativa e vorrei entrare e abbracciarli, ma so che non lo farò, per quel modo rispettoso/distaccato che si usa qui, del non toccarsi, del non invadere gli spazi altrui.

Certo che se gli abbracci cominceranno a mancarmi come l'estate scorsa... forse per il mio benessere psicofisico dovrò cominciare ad educarli a questo gesto così semplice e liberatorio! Almeno con me!


Un concerto, a Tokyo

15 gennaio 2014

Premessa: Ok adoro i Blur. Non è una fissa da adolescente con gli adesivi nella smemo e feticci vari, ma un amore iniziato tardi, portato avanti con empatia come ogni pseudo pazza/sentimentalona che si rispetti. Dopo il concerto reunion di Hyde Park del 2009, dove l'emozione dal palco era tangibile volevo assolutamente rivederli suonare.Lo scorso anno comprai con larghiiiissimo anticipo il biglietto del concerto di agosto a Milano e alla fine dovetti cederlo perché a luglio ero di nuovo qui in Giappone.Ora, due sere fa scopro per caso che i Blur chiudono il tour qui a Tokyo, ultima data ieri sera, e per un attimo non ci credo! Cerco la location e info sui biglietti. Quelli che costano meno sono 9500 yen, una settantina di euro. Non si scherza niente qui. Ci penso un attimo perché sarà dura pagarsi l'affitto questo mese, guardo con amore materno i primi spicci guadagnati poi mi dico che ancora non mi sono concessa nemmeno una serata, una cena, un'uscita, nemmeno a capodanno, e sì, mi convinco che un concerto dopotutto me lo merito!! Insomma, voglio dire... i Blur! Dai! A Tokyo! Son tutta sola, nessuna vita sociale... dai! Dev'essere il destino!Sono velocissima a convincermi.

Arrivo al posto, il Budokan, l' arena al centro della città. I giapponesi tutti ordinati: si deve fare la coda per entrare, non si deve superare la corda e stare in mezzo alla strada, nessuna lattina per terra (ma nemmeno un bidone se per questo!), la coda al merchandise, la coda per comprare da bere, e una marea di addetti col mini megafono che impartiscono istruzioni e avvertimenti in modo educato e anche un po' mono-tono.Dopo aver finalmente trovato la coda per la biglietteria (e distinguerla dalle altre code non è semplice) comincia ad assalirmi il dubbio che non accettino la carta di credito, vedo tutti coi contanti in mano ed io non ho abbastanza cash, sta a vedere che non entro.C'è l'addetto smistamento fila che chiede a turno, e preventivamente, quanti biglietti si desiderano per comunicarlo di volta in volta alla signorina allo sportello con un gesto esperto, prima di far procedere il cliente, dopo di che stoppa con grande discrezione la persona che segue finché la signorina addetta ai biglietti non conclude la precedente operazione... Ogni cosa qui funziona come un meccanismo, e anche le code, mi pare di capire, hanno una precisione che non ha eguali, niente spinte, niente impazienza, nessun piedino che esce dalla linea.
Insomma, l'addetto smistatore sta per farmi avanzare e gli chiedo se posso pagare con carta di credito (in cuor mio mi dico che Tokyo è la città più grande del mondo, una macchina da guerra, devono poter farmi pagare, sicuro.) ma lui mi dice di no ed è già lì che placca il cliente successivo.
Colta più o meno alla sprovvista, più per la velocità dell'esecuzione che dell'avermi fatta fuori veramente, mi sposto di un passo e vedo che nel frattempo, più dietro, l'addetto alla conta delle persone in coda (con tanto di conta persone in mano), aveva già chiuso la linea mentre ero in fila causa fine biglietti, quindi concludo che il mio, di biglietto, è ancora lì, invenduto, allo sportello! Chiaro. E' lì fermo. Congelato. Mi aspetta nelle mani della signorina addetta allo scambio soldi/ticket. Io sono qui. Se rimedio i contanti sarà finalmente mio! Vado dall'addetto capo supremo, quello che controlla cassa, pagamenti, contapersone e smistatore, e gli chiedo se, tornando subito coi soldi presi a un atm, posso ritirare il mio biglietto che, 10 cm più indietro e meno di 30 secondi prima, mi aspettava allo sportello, dopotutto la vendita è chiusa e lui è ancora lì fermo che mi aspetta!... E, si dice il caso!, io sono ancora qui!! La risposta è stata un tipo di risata un po' posticcia, non ben distinguibile fra una risata di derisione o una risata di circostanza forse perché non capiva cosa gli chiedevo.  Diciamo che quella risata accompagnata dalla X fatta con le braccia (che da noi è un "per me è un sì!!", mentre qui, alla giapponese, è un indiscutibile "NO, anzi, se puoi vai via che non ho altro da dirti") mi ha tolto ogni dubbio. Ho incassato con non poco fastidio, principalmente perché non c'è margine di dialogo, o sì o no, e poi ovviamente perché a quel punto ero totalmente nel mood "devo entrare" e dovevo trovare una soluzione! Ma quale?? Penso di giocarmi l'ultima carta: magari i bagarini giapponesi che ho visto lungo la strada non sono dei truffaldini, magari in mezzo c'è anche solo qualche ragazzo che vuol vendere un biglietto perché ne ha in più e riesco a pagarlo coi contanti che ho!Percorro al contrario la strada dal Budokan, rompendo la processione ordinata di gente che va verso l'ingresso. A ben guardare sono proprio l'unica che se ne va... :( mi faccio quasi pena da sola.Becco il tipo che sul piccolo ponte che avvicina la gente borbottando frasi che solo dal tono e dal volume suonano losche, gli chiedo quanto costano i suoi biglietti e mi sento come una tossica che sta cercando l'ultima dose, blatera qualcosa che non capisco, poi credo d'intuire che stia descrivendo l'area dove sono i posti, niente da fare, vuole darmi posti esclusivi e chissà cos'altro, magari qualcuno che mi sventola durante il concerto o mi va a prendere da bere champagne quando ho sete. Gli dico che fa lo stesso, a quel punto sono più rassegnata che mai. Mi consolo pensando a una cena: mi dico che se non il concerto, almeno mi merito un bel pasto, un buon sushi magari... Sì, sono anche molto veloce a consolarmi in effetti.Sono quasi alle scale che portano alla metro, mentre ancora borbottante imprecazioni (tanto non mi capisce nessuno) cerco di capire come districarmi fra la gente che esce per andare al concerto ed io che devo entrare per raggiungere i binari, quando mi sento battere su una spalla, e una ragazza, tutta imbacuccata in sciarpa e cappello (ma io sto messa molto peggio), mi chiede se voglio un biglietto mentre furtivamente si guarda alle spalle. L'ho squadrata in modo un po' sospetto, se non altro perché le stava alle costole sto ceffo che non smetteva di guardarla, e vedevo lei strana, che lo guardava a sua volta, a metà fra lo spaventato (della serie: questo mi picchia) e il sottomesso (della serie: questo è il mio capo/boss/pappa e devo fare attenzione), e le dico sì, sto cercando un biglietto, ma non ho molti soldi con me se vuoi venderlo.Mentre lei continua a guardarsi attorno come se fosse una preda indifesa circondata un branco di iene rabbiose, io mi figuro tutti i possibili scenari: da lei che è schiava del ceffo alle sue spalle, lavora per lui e la notte dorme incatenata in un ripostiglio, a lui che è un ladro o un maniaco e la sta seguendo da ore, fino a lei che è coinvolta in un traffico di organi o persone e presto o tardi (se accetto il biglietto) i miei amici e i miei parenti non avranno più notizie di me. Mi cerca di portar lontano dal ceffo, che comunque non si distanzia mai più di un paio di metri, e non capisco: lei vuole regalarmi un biglietto.Dico, non è vero: questa mi trascina nelle fratte e poi arriva il ceffo e mi fanno a pezzi. Il primo pensiero va a come son conciata, chissà i giornali cosa diranno quando ritroveranno il cadavere con su strati e strati di vestiti, calze, maglie, otto sciarpe, non ho nemmeno il reggiseno abbinato alle mutande (ma c'è qualcuno che è sempre impeccabile?!) e son piena di borse con robe personali e ciaffi.Mi dice che dobbiamo spostarci perché il tipo che ci fissa è uno losco (eh grazie), che non va bene star lì a parlare con lui nei paraggi, perché lui vorrebbe che lo comprassi da lui il biglietto (è chiaro che anche lei vede i fantasmi...)Sorvolo sulla loscaggine dell'uomo eseguendo una serie di versi di stupore che qui sono un po' la norma, e la seguo nelle sue paure, tanto per non dilungarmi in domande e spiegazioni, e le dico ok, può andar bene, lo prendo il suo biglietto, ma lo pago. Lei mi spiega in inglese che non vuole soldi, che la sua amica non può venire; insisto, mi sembra una roba così assurda, e così poco gentile non darle nulla, ma lei continua a dire che va bene così invitandomi a seguirla.Da italiana sfiduciata e abituata alle fregature non posso credere che sia vero, ma insomma, alla peggio domani sarò sui giornali, probabilmente trovata schiattata incatenata in uno scantinato a Shinjuku, senza un rene e con le mie robe spatasciate lì nel parco per tutte le fratte.La seguo e c'incolonniamo con chi va verso il concerto, e mi racconta che Graham Coxon questa mattina è stato nel café dove lei lavora e le ha regalato due biglietti per la serata, mi fa vedere la foto che ha fatto con lui, lei con la divisa del cafè, lui accanto a lei tutto sorridente, e visto che la sua amica non c'è, vorrebbe dare quel biglietto a una vera fan. "La vera fan" sarei io! Quasi mi sento importante!E mi mette il biglietto in mano.E io ho avuto un attimo che è successa sta roba, tipo Jake dei BB che vede la luce, in cui tutto è tornato al suo posto, ma incredibilmente meglio di come era prima e quasi non riuscivo a trattenermi dal ridere, più per incredulità che altro: la mia mente bacata da occidentale ha pensato alle peggio cose piuttosto che a un semplicissimo (anche se non scontato) gesto di gentilezza.
Questa cosa di vedere il marcio o i trappoloni un po' dovunque, di pensare che dietro c'è sempre la fregatura, ci ha rovinato la vita. Vediamo tutto con un filtro scuro e difficilmente concediamo, a nostra volta, gentilezze ad altri. Siamo più preoccupati di perderci qualcosa o di non guadagnare niente che non ci godiamo le cose pulite e "normali" (per il vero significato che le cose dovrebbero avere, senza sotterfugi).Non si è gentili per paura di perdere dei soldi, si pensa che donando 1 ti chiederanno 100; si ha paura di essere superati sul lavoro se si agevola qualcuno; di vedersi soffiare il compagno, gli amici, se gli si permette di socializzare; di vedersi soffiare un'idea se la si condivide con altri... Che vita d'inferno!La verità è che mi ha persino commossa quando ho capito che davvero voleva regalare quel biglietto a me solo perché aveva pensato di fare una cosa gradita, ero meravigliata, come quando vedi una cosa per la prima volta! Ho cercato di non passare per pazza e l'ho ringraziata all'infinito, promettendole che sarei passata a trovarla al café, o che le avrei offerto un prossimo concerto. Rideva e diceva di no, che bastava che restituissi la gentilezza a qualcun'altro.Lo faró, ma sicuramente le porterò anche un regalino al café uno di questi giorni.Ci siamo scambiate i numeri e spero di rivederla e andare a sentire ancora un po' di musica insieme. :)La rigidità di questo popolo certe volte è completamente stravolta dalla disponibilità, la gentilezza e la purezza delle intenzioni.Non c'è dubbio che da questa esperienza ne usciró arricchita, se non di soldi (la vedo dura!!), di innumerevoli insegnamenti positivi e di belle vibrazioni!

ps
Il concerto non è stato dei migliori, forse la band un po' stanca, forse l'audience non esattamente coinvolgente: strana cosa il pubblico giapponese, a suo modo fantastico e rispettoso, sicuramente insolito per noi occidentali il loro modo di partecipare, molto composto e attento.Il meglio senza dubbio Coxon, la sua chitarra e i suoi sfoghi distorti. E grazie del biglietto :)

Blur at Budokan, Tokyo, 2014
Blur at Budokan, Tokyo, 2014

Istruzioni per creare scompiglio in un ufficio giapponese

6 gennaio 2014


All'ufficio del comune di Shinagawa, nella zona dove gli stranieri registrano la residenza non c'è nessuno che parla inglese, questa cosa ha dell'incredibile. Non so come sia possibile, ma fra la loro infinita pazienza e tu che sei lì come in un sogno circondato da moduli e cartelli che non capisci, qualcosa ne viene fuori.
Sono entrata come fossi una palla in un flipper, mi son detta "mi farò guidare e trascinare dai loro gesti, ci capiremo". Al banco informazioni cerco di far capire cosa sono venuta a fare a un signore vestito di tutto punto che mi risponde con una lunga frase di cui capisco solo ichiban (primo), poi seguo il suo braccio che si è allungato a darmi una direzione.
Mi ritrovo in una sala che precede i vari impiegati, davanti a tavoli pieni di moduli tutti interamente in giapponese, persino quelli che presentano la targhetta "foreign residents' registration" con quell'apostrofo messo a caso. Grazie penso, ne prendo uno, lo guardo lo giro, riconosco qualche kanji, storie di date (quali??), di nomi...
Non mi faccio prendere dal panico e mi lascio rotolare fino al signore addetto ai numeri (sì perché alla faccia della crisi e dei tagli di dipendenti, qui c'è uno che come lavoro dice ad alta voce i numeri che escono, come una tombola, e indica alle persone a che sportello dirigersi, anche se ce l'hanno davanti al naso e senza dimenticare mai un mezzo inchino. Mi dà un numero e mi dice di sedermi, poi quando mi chiamano e mi alzo per andare dall'impiegata che mi sta aspettando ci manca poco che non mi sposti anche la sedia.
La ragazza davanti a me avrà sui 30 anni, non parla una parola d'inglese, penso "mmm mmm! ottima scelta per uno sportello per stranieri!" Ma nonostante questo ancora una volta ci si capisce, lei con tutti i suoi "etoooo.... Eeeehm... Kore wa.....etooooo" e io comprendendo una parola ogni 100, il più delle volte particelle grammaticali come i nostri di a da in con su per tra fra.
Bon sembra fatta! Poi dopo avermi riempita di opuscoli sul comune, su come gestire le emergenze, su cosa fare in caso di terremoto (tutto ovviamente in giapponese), la vedo vacillare. Azz! La vedo che con quelle manine non sa bene cosa fare e mi dice d'aspettare, parte il panico, più suo che mio, essendo che mi son messa completamente nelle sue mani. Allarme: la vedo andarsene a prendere un librone e tornare tutta confusa. Capisco il dilemma: la zona dove abito è sul confine con un altro comune e lei non sa come inquadrarmi; guardiamo insieme su questa mappa in cui ogni casa ha un nome, e localizziamo la mia microcasa gelida. Vista da lì è davvero minuscola!
Lei non sa che pesci prendere e mi dice d'aspettare mentre col librone in mano parte alla ricerca di qualcuno che la illumini. La seguo vagare come una sonnambula fra le scrivanie dei colleghi senza avere il coraggio di sporgersi verso nessuno, con quella camminata a piccoli passi e un sorriso imbarazzato, finché non coinvolge un giovane impiegato in quella che secondo me sarà la sua vergogna della giornata (e sulla quale stasera farà lunghe penitenze).
Tornano insieme da me: "La casa è questa? È proprio questa èèè...? Uhmmmm... Il nome è diverso, il proprietario non ha cambiato il nome... Come facciamo come non facciamo" alla fine il giovanotto sbarbato ha tirato una riga sul nome che avevamo usato e arrivederci e grazie. :D italian style.
Mi dice che per l'assicurazione sanitaria devo andare al quarto piano, che è solo un piano sopra a dove siamo anche se dove siamo è il piano terra, ma si vede che il giorno che hanno messo i numeri ai piani gli girava di chiamarlo terzo piano, quindi, tant'è.
Salgo una rampa di scale e sono quindi al quarto piano che in realtà è il primo, e di nuovo decido di ruzzolare come la palla nel flipper perché non vedo nessuna indicazione che non sia in kanji.
C'è sta signorotta tutta minuta e vestita di grigio e khahi che la vedo bramosa di aiutare chiunque, sembra la zia che tutti abbiamo in campagna, pronta ad accoglierti con ciambella appena sfornata, così l'avvicino e le mostro il foglio per la richiesta di assicurazione che mi avevano dato al terzo piano, il piano terra. La poveretta si ritrova in mano forse l'unico modulo scritto in inglese di tutto l'edificio, e ancora una volta scateno la ricerca di qualcuno che capisca.
Poi mi raggiunge, con il suo fare materno mi mette in mano un numero e m'invita a sedermi di fianco a una vecchia signora che spara puzzette tossiche come una mitraglietta.
È il mio turno e l'impiegato di cent'anni (evidentemente molto più intelligente degli altri tanto da non provarci nemmeno a comunicare con me) chiama un ragazzetto coi capelli da pulcino e nemmeno l'ombra di un baffo che però sa un po' l'inglese, e tutto si conclude piuttosto facilmente, tranne per il fatto che alla fine mi spiega qualcosa su un rimborso (mio o loro non mi è chiaro) per il quale dovrò tornare a febbraio. Ho provato a farmi spiegare cosa dovrò dire quando tornerò ma il ragazzetto si era inchiodato come una macchina rotta su quella frase che non capivo, così ho finto che era chiarissimo, cristallino, ho ringraziato con una sequela d'inchini e me ne sono andata sapendo che a febbraio sarò di nuovo una palla nel flipper.

La mia prima lezione di kyudo

31 luglio 2013

(dal blog Kendonellemarche: http://kendonellemarche.wordpress.com/2013/07/31/racconto-di-una-prima-lezione-di-kyudo-a-tokyo/)

Mi trovo a Tokyo da quasi un mese, sono partita un po’ allo sbaraglio ma carica di voglia di trovare un piccolissimo posto in questa città che amo. E mentre come una trottola impazzita percorro km su km a piedi e in metro per conoscere persone che qui sono riuscite ad aprire una loro attività, a restare per molti anni e a lavorare, cerco di ritagliarmi tempo anche per me, visitando parchi meravigliosi che lasciano senza fiato e piccoli templi nascosti fra i palazzi.

Anni fa ho frequentato un corso di tiro con l’arco istintivo a Montegiardino, dietro Sanmarino. Ho seguito le lezioni per qualche anno e partecipato a numerose gare.Si usano archi storici, ricurvi e longbow. Non ci sono mirini, bilancieri, gli archi sono in legno così come si preferirebbero le frecce, anche se in palestra per praticità usavamo quelle in carbonio, vista la facilità con cui quelle in legno si rompono. Ogni arco è fatto a mano da un artigiano, quindi ognuno tira diversamente da un altro, bisogna prenderci un po’ la mano, conoscerlo, e diciamo che non si “mira”esattamente, perchè è più un imparare a governare la propria arma e il proprio respiro. Non si hanno grandi punti di riferimento, e le gare si svolgono in boschi dove i terreni non aiutano, così come le condizioni climatiche o le sagome degli animali spesso nascoste dalla vegetazione. Detto questo, non potevo essere qui in Giappone senza pensare al kyudo.Volevo trovare qualcuno che fosse disposto a lasciarmi provare. So che è diverso dal ricurvo che ho sempre utilizzato, ma forse come spirito molto più vicino al tiro con l’arco istintivo che non al tiro con l’arco che si vede alle olimpiadi, che a mio parere è al pari di un fucile…
Nonostante un stop iniziale, dovuto all’incontro con persone che non mi hanno dato neanche il tempo di esporre quello che cercavo, non mi sono data per vinta e ho visitato un negozio a Ootsuka (Yamanote line, stazione dopo Ikebukuro), Asahi Archery è il nome, dove ho trovato una gentilissima ragazza che parla inglese e che mi ha dato un volantino con mappa per raggiungere la vicinissima palestra dove sono andata a chiedere altre informazioni. È una palestra credo comunale, non saprei riportare il nome perché il volantino è interamente in giapponese con troppi kanji per me! Raggiungibile a piedi dalla stazione jr di Ootsuka in 10 minuti. Ha campo da calcio, da baseball ed all’interno vi è questo piccolo spazio dedicato al kyudo. Lezione di 3 ore, per 400¥, che sono circa 3€, affitto dell’arco 150¥, niente in pratica. Nessuno parla inglese, e qui, ovunque, funziona che ti parlano in giapponese come se fosse la tua seconda lingua, quindi velocemente è senza preoccuparsi troppo se capisci una parola ogni mezz’ora.A differenza del posto precedente (n.d.r.: vi fu una precedente disavventura in un altro dojo, dove fu praticamente buttata fuori  ) tutti si sono rivelati immediatamente gentili e disponibili. Ad allenarsi c’erano 3 ragazze, 2 uomini e qualche donna. Un maestro e 2 o 3 maestre, difficile dirlo ma erano loro che aggiustavano, per così dire, le posizioni e i movimenti di chi era lì per tirare.

Mi hanno dato un arco e mi hanno insegnato come si impugna, mi hanno fatto vedere come e dove vanno posizionate le dita, e rispetto al ricurvo è completamente diverso: la mano che tiene l’arco non lo stringe saldamente come ero solita fare, ma si abbraccia l’impugnatura con delicatezza (che rispetto ai nostri storici è molto sottile), si appoggia l’arco sul finire del palmo della mano esattamente prima delle dita, i polpastrelli delle ultime tre dita (a partire dal mignolo) poggiano su una piccola porzione di arco, si chiude col pollice e l’indice rimane libero. Questo di primo acchito non rende la presa facile, certamente con la pratica sarà diverso, ma si ha la sensazione di non avere salda l’arma nelle mani. In realtà rende la presa moto bella da vedere, e permette all’arco, una volta scoccata la freccia, di oscillare e girarsi con movimento fluido e non secco.Il caldo di questi giorni non aiuta perché personalmente avevo le mani perennemente sudaticce e sentivo scivolare la presa.Sono stata fatta spostare nel momento in cui sono arrivati tutti i partecipanti alla lezione e ho potuto guardare l’intero svolgimento di un tiro, più e più volte.


È splendido, una danza, simmetria e disciplina. Durante le 8 forme che portano al tiro, ho visto i maestri correggere ogni minima cosa, testa appena bassa, freccia durante il saluto impugnata troppo indietro, pugno non posizionato bene sul fianco, gomito appena più alto…Sembrava che correggessero un quadro. Si vedeva che alzavano e spostavano dove la simmetria o i parallelismi non erano perfetti. Senza dubbio l’importanza è focalizzata sulla forma e la “danza” che porta al tiro.Un gruppo di 4 persone alla volta si posizionava per il tiro, ed è bellissimo vedere che uno alla volta, con pochi secondi di distanza, calcolati e precisi, si susseguono nelle forme per poi tirare. Mentre il primo si appresta a scoccare, il secondo sta per posizionarsi in tensione per il tiro, il terzo sta agganciando la freccia e il quarto prende solo posizione. Allo stesso modo, uno alla volta, finiscono. Fantastico. La difficoltà maggiore per quel che mi riguarda, a parte sicuramente tutti i movimenti eleganti che portano al tiro e che ovviamente ho appena conosciuto, è tendere l’arco. Nel tiro istintivo ci vuole certo un po’ di forza per tendere l’arco, ma il braccio che lo tende puó scaricare per così dire lo sforzo sul polso e il gomito una volta che si è raggiunta la massima tensione.La difficoltà che ho provato oggi è riuscire a tendere un arco (peraltro molto lungo e quindi quando si è sotto sforzo difficile tenerlo dritto e fermo se si è fuori allenamento) lontano dal petto e in alto, il tutto con posture che devono essere morbide e fluide. Il movimento principale, quello in cui si comincia ad aprire l’arma mi ha ricordato moltissimo la postura delle ballerine di danza classica, il classico congiungimento delle dita con le braccia che creano un ovale. In quella posizione è piuttosto difficile tendere la corda.Anche solo il fatto di dover dare più spazio all’apertura dell’arco rende la cosa più complicata: nel tiro con l’arco istintivo la corda si tende fino all’angolo della bocca, si appoggiano letteralmente le dita che tendono la corda alla fine delle labbra. Questo permette anche di fermarsi qualche istante e spostarsi volendo.Nel kyudo l’apertura è maggiore, l’arco è così lungo che non potrebbe essere altrimenti, questo significa che la mano che tende la corda arriva fino alla spalla senza toccarla, più difficile quindi sentire il punto perfetto e anche mantenere una posizione del gomito esatta (con la corda alla bocca viene abbastanza naturale avere il gomito parallelo a terra).L’impugnatura stessa della corda è molto più difficile: nel nostro tiro con l’arco la corda viene tesa con indice, medio e anulare, incastrandola a mo’ di grilletto nella seconda falange, fra due dita insieme alla corda c’è la scocca della freccia. Nel kyudo i guantini di protezione sono estremamente più spessi dei nostri e la punta delle dita (in questo caso indice, medio e pollice) sono ulteriormente protetti da qualcosa di rigido come un guscio all’interno della pelle del guanto. Questo rende meno sensibili le dita, la presa della corda è affidata principalmente a una sorta di “callo” nella pelle del guanto, alla base del pollice, e le altre due dita semplicemente stringono sul pollice per non far scivolare via la corda. Non si tiene la corda stretta fra le dita quindi, ma stretta nell’incavo del pollice. Ci sono tante altre differenze, senza contare tutta la parte di forma e di movimenti che si unisce al tiro. In generale è bellissimo, da vedere e immagino anche da eseguire correttamente! Mi hanno detto di tornare, spero non sia solo uno dei solito modi di fare stra-gentili che hanno qui, ma che abbiano realmente piacere di riavermi.Credo fossero tutti piuttosto divertiti da questa occidentale spilungona che chissà come è finita in questa palestra fuori mano, le ragazze ridacchiavano quando vedevano i maestri affacendarsi a spiegarmi un po’ tutto con un giapponese che non capivo. Ed emettevano i loro gridolini classici di gioia e sorpresa quando mi vedevano provare a eseguire le posizioni e a tirare, è stata una bellissima esperienza e voglio sicuramente tornare. L’aneddoto più divertente: il maestro, questo signore anziano, basso e con un po’ di gobba, mi ha seguito per una mezz’ora, era molto più serio e severo delle maestre (anche se poi quando sentiva le ragazze ridacchiare per come mi trattava, rideva anche lui di sè stesso), e mi parlava senza mai smettere. Non capivo nulla, cioè… finché mi faceva capire come spostare parti del corpo va bene, ma quando si scostava e parlava senza smettere non capivo cosa voleva che facessi. A un certo punto mi ha messo nella posizione per tirare, freccia incoccata, tesa al massimo, mani che sudavano, sentivo scivolare l’impugnatura, la corda stretta nel pollice senza sapere quanto avrei durato in quella posizione… E lui mi spostava un dito di un centimetro, e poi il gomito più parallelo a terra, il polso più morbido, e poi parlava parlava e borbottava e non sapevo cosa diceva, non smetteva più, voleva che cambiassi ancora qualcosa o che tirassi?? Alla fine ho scelto la seconda perché temevo che mi sarebbe esploso il colpo senza volere. Aaaahhh!!!! È impazzito! Mi ha sgridato non so in che modo nè perché, ha sbraitato e le ragazze ridacchiavano mentre io ero mortificatissima, ma mi stavano per cadere le braccia dopo 5 minuti che rimanevo ferma in tensione (vestita poi a sufficienza per coprire tutti i tatuaggi stavo morendo di caldo… Avete presente l’assordante rumore delle cicale dei cartoni animati che evoca il caldo? Ecco, uguale).

Un caffè per favore

7 agosto 2013

È più che chiaro che qui manca la vera esperienza del bar italiano. Non amo il caffè, ma questo caldo che stordisce lo rende necessario, e anche se il suo sapore non mi piace ho imparato a distinguere un caffè davvero tremendo da uno decente. Mi mancano tutte le sfumature in mezzo, quelle che i miei amici caffeinomani conoscono, ma sopravvivo.
Ho assaggiato il caffè più amaro dell'universo e ho capito (guardando le mosse della barista) cosa lo ha fatto diventare tale, oltre forse a una cattiva qualità del caffè (?) dopo averlo dosato per inserirlo nella macchina, è stato pressato con una tale forza che mi ha ricordato quella che la mia buon'amica Elena impiegava quando mi faceva la spremuta di melograni. Ho pensato che non sarebbe mai filtrata una goccia d'acqua fra quella polvere, risultato: fiele.
Un giorno invece una ragazza davvero gentile mi ha visto in strada consultare una mappa sotto il sole rovente delle 14, quando l'asfalto se guardato attentamente emette vapori dall'aspetto vagamente infernale, mi ha fatto entrare nel suo piccolo studio per rinfrescarmi ed aiutarmi con le indicazioni, e mentre studiavamo percorsi e punti di riferimento mi ha servito un bel bicchiere di una bibita scura e fresca, in bicchiere pieno di ghiaccio, aaaah coca cola! ho pensato, e ne ho trangugiato un sorsone come avessi vagato nel deserto per giorni... Caffè. Acqua, ghiaccio e caffè senza zucchero.
Stamattina ho fatto davvero fatica a scendere dal letto, casa fresca, gambe spaccate da ieri e l'idea di andare in un posto caldo a sudare anche l'anima mi incatenava al materasso. Mi sono fatta forza promettendomi di fare prima un salto in un bar Lavazza non lontano da casa. Un caffè decente e magari avrei risvegliato un po' i sensi da quet'ipnotica afa.
Il caffè riporta il marchio Lavazza ovunque, e si può bere al banco, il prezzo è ragionevole e fin qui tutto bene.
Ma forse un po' per il sogno di risvegliarmi da questa mattina in cui mi trascino, immaginavo il caffè servito con la dose di confusione e fretta tipica dei nostri bar, dove le tazzine sbattono sui piattini, i clienti sono serviti contemporaneamente e il banco si sgombra non appena si è fatta l'ordinazione e bevuta la propria tazza. Gente che si litiga i quotidiani, baristi che scherzano coi clienti o semplicemente li trattano con la velocità della luce per girarsi e continuare a fare caffè su caffè.
Arrivata già imbambolata di mio ho seguito la performance della cassiera e del barista che avevano 5 persone davanti che dovevano ordinare, e giuro che dentro di me m'immaginavo dietro qual banco e pensavo che in Italia mi avrebbero preso per pazza, il prorietario mi avrebbe spaccato in testa una mazza di legno e probabilmente un paio di clienti di fretta se ne sarebbero andati mentre ancora ero lì a preoccuparmi di posizionare con cura la tazzina sotto il beccuccio della macchina.
Tre salary man, poi una signora, poi io, in coda, come alle poste. Serviti in questa sequenza senza sfruttare i tempi di attesa come ad esempio mentre il barista prepara l'ordinazione la cassiera può far pagare il successivo cliente.
Quindi, mettiamo che un cliente ordina un panino e un caffè, quello che succede è questo ( ricordiamoci l'atmosfera: locale silenzioso, chi già è seduto al tavolo quasi sicuramente sta consumando la sua colazione come fosse in biblioteca, probabilità molto alta di sentire svariati "oh scusi, oh grazie, oh mi spiace" al secondo, e un ambiente ordinato e piacevole): il cliente fa la propria ordinazione, la cassiera gliela ripete poi batte i tasti sulla cassa, mostra al cliente l'importo e glielo dice, poi mette un vassoietto davanti a sè per ricevere il denaro (a quanto pare è indispensabile in qualsiasi esercizio pubblico), il cliente mette i soldi sul vassoietto, la cassiera dice quanto gli è stato dato dal cliente, prende i contanti nelle mani e si fa girare le banconote fra le dita almeno un paio di volte, contandole ad alta voce davanti al cliente anche fossero solo due. Detto questo le mette in cassa e stampa lo scontrino ripetendo qualche litania in giapponese, porge resto e scontrino al cliente senza dimenticatarsi di rincontarlo almeno due volte sempre con grande teatralità davanti agli occhi del cliente e sempre con la manualità di un banchiere. A questo punto se il cliente non ha ancora deciso di andare a comprarsi una moka e farsi il caffè da solo, è soltanto perché sui fornelli giappi la moka non ci sta.
Bene. La cassiera dice al barista il caffè che deve fare e lo dice con la stessa enfasi di Gordon Ramsay che vuole 2 filetti alla Wellington, poi si volta verso l'addetto panini e fa lo stesso con lui. Nel frattempo posiziona un vassoio sul banco e prepara posate, salviette e piattino. Ma siccome il cliente il panino se lo vuol portare via, con una pinza prende il panino consegnatole dall'assistente e lo infila in una tasca di carta, poi in un sacchetto di carta di cui sapientemente e con estrema cura piega il bordo, poi dentro una bustina di plastica che sigilla ufficialmente con l'adesivo Lavazza.
Mentre il mio corpo mi diceva di andarmene già al primo passaggio perché ero in ritardo, la mia mente era ipnotizzata e la mia immaginazione valutava quanta fatica avrebbero fatto quei poveri 3 ragazzi in un qualsiasi bar italiano. Anche solo 10 minuti all'ora di punta, magari in due, neanche in tre.
Ho pensato a tutti gli amici che hanno o che lavorano in caffè e ristoranti in Italia e mi sono immaginata le reazioni di tutti voi davanti a una scena del genere :)
Di sicuro sarebbe interessante che una di queste grandi aziende provasse a portare non solo il caffè ma anche l'atmosfera che caratterizza i nostri bar. Dicono che qui amano tanto le atmosfere "esotiche" di Paesi come Francia e Italia, Paesi che adorano. Ma anche se il prodotto e il locale hanno la bandiera italiana ovunque, l'atmosfera è comunque giapponese, all'ennesima potenza!
Mmm devo convincere qualcuno a portare un po' di confusione in questi posti!!! È il momento di contattare le aziende italiane di caffè ;)

Enjoy the silence

27 luglio 2013

Quando trascorro le giornate senza parlare con nessuno il tempo passa veloce ma con passo pesante. Riesco a sentire la consistenza densa di ogni minuto. Questo tempo è volato e allo stesso tempo è stato intenso.
In giro da sola sono senza distrazioni, l'attenzione è in ogni particolare, catturo le forme dei palazzi per non perdermi, lo sguardo segue i movimenti, le persone, le cose nuove, a volte credo di sentire anche i pensieri di chi mi circonda, come quando a volte in metro percepisco la diffidenza di alcune persone nel sedermi accanto, o la dolcezza nel sorriso di una mamma che vede il suo bimbo cercare le mie dita.
Durante il giorno cammino per la strada e le distanze diventano solide, come quest'aria che dovrebbe essere impalpabile invece è umida, grassa e ferma. A volte non ci sono nemmeno pensieri, solo la sensazione di affondare i piedi, passo dopo passo, nella vita di questa città, di attraversarla come un guado.
In silenzio, sempre in silenzio.
Anche la diffidenza in metro, o il sorriso della mamma, in silenzio anche loro.
Ascolto questa lingua di cui capisco poche parole, i suoni artificiali di ogni cosa, la musica che esce da ovunque, il rumore dei treni e dei mille annunci, le cicale, i corvi, il vento quando c'è.
Anche quando scambio due parole con qualcuno, lo capisco che il silenzio si è appena affievolito e spostato, solo per darmi respiro, come se fosse fluido e vivo, come fosse manovrato da qualcuno.
Leggevo un libro oggi, e sentire alcune parole materializzarsi con la mia voce nella mia testa, è stato doloroso, come quando cerchi il coraggio di dar voce ai tuoi pensieri dopo che per tanto tempo li hai tenuti segreti, o quando sei afona e non esce un suono.

Ci sono piccoli gesti bellissimi qui, guardo di nascosto persone che hanno attenzioni tenere e segrete verso qualcuno, ma anche cose che da noi sembrano dimenticate, mi emozionano e pungolano quel silenzio indotto, come a volerlo scalfire, ricordandomi sensazioni che a volte credo di non conoscere più.
Quando non puoi comunicare, quell'emozione resta solo per te, e ci sono volte che portandola a casa perde la sua bellezza e diventa pesante ogni passo di più.
Quando sono nel letto la notte, come ora, sogno di poter addormentarmi con la testa sul petto di qualcuno, dopo aver lasciato uscire tutte le parole che non ho detto durante il giorno, e aver condiviso ogni cosa che mi ha emozionata, che ho visto.
Accucciata contro un cuore che batte, solo per rassicurarmi da tutto questo silenzio.